Jan Van Bijlert (Utrecht 1597 /1598 - 1671)
Regina romana con i suoi due figli(Cornelia o Livia Drusilla?)
Olio su tela, cm 96,5 x 80
1625 - 1630 ca.
Provenienza: collezione privata
La recente pulitura di questa fine opera ne ha fatto emergere la qualità d’esecuzione davvero sopraffina, constatabile anche per l’ottimo stato di conservazione: plausibile che ci si trovi di fronte a una replica con varianti di una delle più note opere del caravaggesco Jan Van Bijlert, erroneamente identificata come una Allegoria della Carità per la quale, come argomenterò più avanti, è possibile proporre un soggetto più preciso (P. Janssen Huys, Jan Van Bijlert (1597/98-1671), catalogue raisonné, Amsterdam 1998). Il nostro lavoro inedito presenta varianti significative: risulta più ricco nello svolgersi delle pieghe della tenda verde di fondo, più particolareggiato nella colonna dove sono evidenti i segni del tempo, più intenso nelle espressioni delle figure, meno compassate e più vivide, a riprova che non siamo di fronte a una semplice copia di bottega; inoltre l’immagine è meno ampia sui margini (forse per il rintelo). Questo dipinto quindi riveste un particolare interesse nel percorso stilistico del Van Bijlert, anche perché è certamente uno dei primi eseguiti dopo il ritorno in patria dal soggiorno romano, quest’ultimo documentato dal 1621 al 1624 circa: un periodo alquanto misterioso, per quanto il pittore risulti censito negli stati delle anime della parrocchia di Santa Maria del Popolo e risulti facente parte della “Schindlersbent” ( compagni della stessa risma), ovvero l’associazione dei pittori olandesi che tutelavano i propri interessi sulla competitiva piazza capitolina, dove la da poco nata Accademia di San Luca sgomitava per avere il monopolio sulla ricca messe di commissioni che a quel tempo piovevano letteralmente da ogni angolo d’Europa. Ben poco sappiamo della formazione di Jan: figlio di un decoratore di vetri e vetrate, entrò - non conosciamo di preciso quando, probabilmente intorno al 1612-1613 - nella bottega di Abraham Bloemaert, per poi perfezionare la sua educazione all’arte col già citato soggiorno del bel paese; d’altronde anche un suo ben più noto compagno di bottega, Gerrit Van Hontorst, prima di lui, aveva compiuto il medesimo viaggio, al parti di Hendrick Terbrugghen e Dirk Van Baburen, che quindi funsero da ‘battistrada’ per il pittore poco più che esordiente (M. Liesbeth Helmus, Le caractére hollandais du caravagisme d’Utrecht, in Utrecht & le mouvement caravagesque international, a cura di M. Liesbeth Helmus, V. Manuth, Paris 2015, pp.1.23-33; G. Papi, Un misto di grano e di pula: scritti su Caravaggio e l’ambiente caravaggesco, Roma/Napoli 2020). Nessun lavoro ci è giunto di quel momento, e, a differenza dei colleghi, non ebbe nemmeno una commissione pubblica: non siamo al corrente di conseguenza in quale giro di conoscenze ed eventuali protezioni si inserì, o presso quale atelier ebbe ulteriori insegnamenti; solo le prime tele del ritorno nel nord, come quella qui presentata, sono ‘documenti’ sui quali possiamo fondare qualche ipotesi, per via dello stile alquanto precipuo che le contraddistingue. In primis riscontriamo che il caravaggismo del Van Bjilert è un caravaggismo per così dire ‘addomesticato’, nel senso che non troviamo nel suo repertorio scene particolarmente cruente o veridiche, né quei violenti sbattimenti chiaroscurali o atmosfere fosche ed evocative che in parte caratterizzano della prima ‘fronda’ di seguaci del Merisi: la morbidezza del lume che scorre dolcemente sulle superfici descrivendo con un acume mimetico al limite del tattile i tessuti più preziosi e ricercati, o le epidermidi allisciate ed eburnee, palesa contatti con Orazio Gentileschi come, più in generale, con certa pittura bolognese d’ascendenza carraccesca, d’altronde testimoniata da un’opera come la Giuditta in collezione privata che è una vera e propria esercitazione su Guido Reni; elementi che riscontriamo anche nel nostro dipinto e che palesano delle tangenze con la poetica di Gerrit Van Hontorst. D’altronde i due certamente si conoscevano: infatti l’unica commissione documentata al di fuori di Utrecht - da dove Jan non pare poi essersi più spostato - riguarda un ciclo di lavori destinato all’Inghilterra, con soggetti tratti dall’Odissea, per la quale il tramite fu proprio l’altro allievo del Bloemaert. Inoltre, anche nei dipinti a più figure, la composizione appare sempre nitidamente pausata con un compito senso del dinamismo, quasi i protagonisti della scena fossero stati messi nella posa più conveniente per sortire un effetto di gradevole decoro. In tal direzione l’artista risulta attento al dato di realtà, nel senso che ci vuole restituire con lucidità di visione i suoi soggetti, puntando soprattutto sulla eletta idealizzazione di quel che ci viene porto: ecco allora l’esatta definizione dei cangianti tessuti di pregio al fine di esaltare la ricca tavolozza nelle sue più sottili variazioni, ma senza sbattimenti tonali troppo insistiti, che possano turbare l’equilibrio compositivo, alla ricerca di atmosfere rasserenate e silenti. Sono tutti elementi che ritroviamo nel nostro quadro: nel quale le figure sono disposte secondo una calcolata disposizione per diagonali che s’incrociano al centro della tela, alla quale fa riscontro la serie di ortogonali formate dalla colonna e dai panni a sinistra. Gli astanti si scalano progressivamente in profondità per piani successivi: la nitidezza delle linee li ritagliano sul fondo rendendoli simili a un bassorilievo scultoreo, con un evidente richiamo al classicismo e alle antichità che il giovane avrà visto in gran copia nella Capitale, alle quali alludono la colonna e il giaciglio di pietra con decori sul primo piano. In tal direzione ritengo che non ci si trovi di fronte a una raffigurazione allegoria della Carità, perché solitamente essa né è calata in un interno descritto in modo così puntuale - che parrebbe proprio una dimora dell’antica Roma - né si volge con tale amorevolezza, così scopertamente materna, verso i putti che la circondano; inoltre essa non è di solito abbigliata in modo così pudico e regale, ma può porgere un seno scoperto a uno dei fanciulli che lo accompagnano. Quindi ritengo che ci si trovi di fronte a una raffigurazione ben precisa di una nobile romana, che in mancanza di attributi precisi non è identificabile con certezza. Possiamo proporre due plausibili nomi di donne ben note come esempi di virtù e madri di celebri membri dell’alta aristocrazia: Cornelia e Livia Drusilla. La prima, figlia di Scipione l’africano e di Emilia, a sua volta figlia di quel Lucio Emilio Paolo che si sacrificò eroicamente per la patria nella battaglia di Canne, fu un sommo esempio di rettitudine morale: nonostante fosse rimasta vedova in giovane età, non cedette alle lusinghe del re d’Egitto Tolomeo VII Evergete, ma si consacrò alla educazione dei due figli, i celeberrimi Gracchi che seguì perfino nella loro carriera politica; la sua fu la prima statua di donna esposta in pubblico a Roma. Oppure potremmo trovarci di fronte a Livia Drusilla, celeberrima moglie di Augusto, madre di Tiberio e Druso Maggiore, che venne addirittura divinizzata dopo la sua dipartita; donna volitiva e di grande ambizione, una delle più influenti, anche politicamente, nella storia dell’impero. Ma ribadisco: in mancanza di ulteriori indizi, anche documentari, queste rimangono delle ipotesi. Termino con una breve puntualizzazione sulla inventiva della nostra fine tela: essa è in rapporto a un ben preciso percorso di riflessione sul tema religioso della Madonna col Bambino, espletato in quel giro d’anni da Jan Van Bijlert, che inizia con la Sacra Famiglia della Galleria Sabauda di Torino, nella quale compare l’idea della colonna e della disposizione di tre quarti di Maria, passando per due Vergini col Bambino in collezione privata (in America e in Germania), nelle quali è messa a punto la posa della figura femminile, della tenda come dell’inserto d’archi-composizioni vengono riproposte e la disposizione tettura: queste perfezionate in controparte nel dipinto di cui si è scritto, d’argomento profano, arricchito dalla presenza di un secondo fanciullino, con un risultato più accattivante per la soffusa tenerezza che spira dalla scena.
Alessandro Agresti