Baldassarre De Caro (Napoli, 1689 – 1750)
Rapace cattura un piccione, tartaruga, rana e serpente
Olio su tela, cm 50 x 76
Firmato in basso a destra: “BDCaro”
Scheda critica Prof. Alberto Crispo
Nato nel 1689 a Napoli, Baldassarre De Caro (Napoli, 1689 – 1750) fu un pittore in prevalenza di nature morte, di cacciagioni e di composizioni floreali, allievo, secondo il biografo Bernardo De Dominici (Le vite de' pittori, scultori e architetti napoletani, Napoli 1742, III, p. 577), dell’artista Andrea Belvedere, "... dal quale [Belvedere] apprese primieramente a dipingere fiori, de' quali molti quadri naturalissimi con freschezza e maestria ha dipinto".
Nel corso del tempo gli orientamenti stilistici del De Caro subirono varie mutazioni sotto l’influenza dei modelli propri della pittura olandese e fiamminga del secolo precedente (Otto Marseus van Schrieck, Jan Fyt, Frans Snyders, Abraham Bruegel) e della tendenza animalistica dell’ultimo Giuseppe Recco, arrivando a privilegiare come soggetti soprattutto nutriti gruppi di cacciagione. Anche la linea pittorica cambiò registro, allineandosi con le tendenze dominanti che ispiravano la produzione della cerchia di Francesco Solimena: colori scuri, ombre dense alternate a squarci di luce, impasti cromatici grevi, atmosfere crepuscolari.
Pittore estremamente prolifico, il suo stile, ancora legato alla maniera del "bodegon" spagnolo, era particolarmente apprezzato e richiesto dalla nobiltà napoletana del XVIII secolo e dalla corte borbonica, come testimoniano le numerose opere conservate presso i musei napoletani di Capodimonte e di San Martino, la Reggia di Caserta e il Museo Correale di Sorrento, la collezione Cavestany di Madrid, oltre che in varie raccolte private.
L’opera in esame, un olio su tela firmato in basso a destra su un sasso “BDCaro”, riproduce con estremo realismo e abilità ogni singolo dettaglio, dal piumaggio del rapace e del piccione, al guscio della tartaruga, al dorso viscido della rana. La composizione, che si sviluppa in orizzontale, è caratterizzata da un forte dinamismo e da una tavolozza cupa, dalla forte predominanza di marrone, grigio e verde scuro. La mano dell’artista decide qui di immortale un momento di lotta animalesca: in uno sfondo selvaggio e boschivo giace il cadavere piumato di un piccione, su cui si erge ferocemente con gli artigli il rapace vincitore dalle ali spalancate. La maestosità di questo volatile ha fatto sì che venisse adottato come simbolo fin dall’antichità dalle più svariate culture, assumendo significati legati alla potenza e alla vittoria, al trionfo. A fare da testimoni vi sono altri due animali, sapientemente realizzati, una tartaruga e una rana, il primo simbolo di tenacia, resilienza, forza, ma anche longevità, il secondo di fertilità e metamorfosi, mentre sulla destra, parzialmente coperto da un cespuglio, si nasconde un serpente attorcigliato su sé stesso.
La tela era originariamente progettata in pendant con un’altra, anch’essa firmata, raffigurante due rapaci, volatili morti e un serpente, come risulta dalle schede dei due dipinti pubblicate sul catalogo della Fototeca Zeri di Bologna (nn. 87207 e 97206).
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