Oggetto messo in vendita da:
AliceFineArt
Rimini -  RN (Rimini)
Telefono/Cellulare: - Paolo +39 335424463 | Anna +39 3333290299   

Scheda articolo 311350
Autore : Philipp Peter Roos (Saint Goar 1657 - Roma 1706)
Philipp Peter Roos (Saint Goar 1657 - Roma 1706) Scontro tra un’aquila e un cane per la preda 
Epoca : Seicento

Philipp Peter Roos (Saint Goar 1657 - Roma 1706)
Scontro tra un’aquila e un cane per la preda


Coppia di dipinti ad olio su tela, cm 99x137 1685 - 1690 ca.
Provenienza: collezione privata


Questi due fini dipinti che si qualificano, oltre che per la notevole scioltezza d’esecuzione, per la perfetta conservazione - sono infatti in prima tela - sono davvero due capi d’opera di un petit - maitre dal talento squisito: quel Philipp Peter Roos detto “Rosa da Tivoli”, al quale sono riferiti indiscriminatamente tanti lavori di bottega che transitano sovente sul mercato antiquariale, a detrimento dell’effettiva qualità alla quale giunsero opere come quelle inedite che qui si presentano. Figlio d’arte, nasce in Germania apprendendo i rudimenti del mestiere dal padre, Johann Heinrich, pittore di corte dei principi elettori di Assia-Kassel, della Baviera, della Boemia, del Palatinato e della Sassonia: ed è proprio grazie a una borsa di studio erogata dal langravio del tempo che il giovane si reca a Roma, per un soggiorno che doveva essere solo temporaneo, al fine di avere poi in patria un valente artefice in grado di espletare tutti i compiti richiesti dalla corte (per la biografia del pittore come della ‘dinastia’ Roos vedi M. Jarchow, Roos: eine deutsche Kùnstlerfamille des 17. Jahrhundeters, Berlin 1986; C. Beccaccei, L’attività dell’artista Philipp Peter Roos detto Rosa da Tivoli a Roma e nel Lazio, in Giovani studiosi a confronto, a cura di A. Fabiane, Roma 2004, pp. 85-100). Philipp giunge nella Città Eterna nel 1677, entra a far parte della Schinlder- sbent (“compagni della stessa risma”), ovvero l’associazione dei pittori olandesi che tutelavano i propri interessi, sovente contro la presenza egemonica dell’Accademia di San Luca - che aveva tutta l’intenzione a controllare il ricchissimo mercato delle arti sulla piazza capitolina - e, plausibilmente, frequenta la bottega di Giacinto Brandi, al tempo uno degli artisti più affermati. Infatti nel 1680 ne sposa la figlia, dalla quale avrà due maschi a loro volta pittori, Jacob e Cajetan.
L’escalation di Philip è veloce e senza intoppi, a ulteriore testimonianza di un artefice che al tempo era tenuto decisamente da conto: infatti se nel 1683 divenne Virtuoso del Pantheon e fu anche Accademico di San Luca - come testimonia il raffinato morceau de reception ancora in quelle collezioni - in più si poté permettere una carrozza personale; un privilegio che testimonia anche di un agio economico non indifferente, coronato dall’acquisto di una casa a Tivoli con tanto di terreno, dalla quale pare non si spostò mai per l’intero arco dell’esistenza. Luogo ameno e pittoresco, quella dimora, chiamata “arca di Noè” per via dei molti animali che venivano amorevolmente allevati, per fornire poi dei modelli dal vero per i dipinti del Roos (G. Gori Gandellini,Notizie degli intagliatori, tomo 13, Parma, s.e., 1814). L’artista espletò esclusivamente scene di genere, in particolare specializzandosi proprio in raffigurazioni bucoliche en plein air con pastori, capre e mucche, che decorarono alcune delle più importanti dimore del tempo. Si pensi che, al culmine della carriera, egli operò per uno dei più fini collezionisti del tempo, quel Livio Odescalchi che commissionò un: “Quadro in tela bislunga di palmi venti quattro, et un quarto, alta palmi dodici [ ... ] rappresenta una boschereccia di Crescenzo Onofrij; le figure del Cavalier Maratta e gl’animali [ ... ] di Monsù Rosa”, opera citata anche dal Bellori nella biografia del marchigiano come “un Paese grande di boscaglia di mano di Crescenzio Onofri dipinse Diana, che discesa a terra da una Nube dà il segno di Caccia, e parla ad una Ninfa,la quale allacciandosi i coturni, si volge tutta intenta alla Dea eh’ è bellis.ma figura avanti con le altre” (per la prima citazione vedi il Getty Index provenence oltre che il volume di S. Costa, sulle opere e sulle committenze del nobiluomo, Dans l’intimité d’un collectionneur: Livio Odescalchi et la faste baroque, 2 voll., Paris 2002; per la seconda vedi G.Pietro Bellori, Le vite de’ pittori ... ,ed. 1977, p. 108), Questo rapido excursus permette quindi di meglio contestualizzare le nostre opere, e di rilevarne alcune eccezionalità: in primis nel soggetto, che è al momento un unicum nel catalogo del “Rosa da Tivoli”. Infatti, come già accennato, conosciamo la sua produzione, per così dire, ‘pastorale’, dove sono alquanto rare le scene di caccia, nelle quali vi è quasi sempre la presenza umana, in secondo piano rispetto alla ‘pugna’ di animali, solitamente colti mentre stanno per ghermire la preda. Nel caso sub judice è invece raffigurato il momento in cui i predatori stanno lottando per il loro bottino: anzi, in un dipinto parrebbe che l’aquila si stia appropriando di quel che spetta al cane, mentre nell’altro lavoro parrebbe che proprio il segugio sia riuscito ad estorcere a sua volta la preda al volatile, in un confronto / contrasto di due momenti opposti e complementari. Non mi stupirei se in tali scene si celasse un significato che andasse oltre l’aspetto meramente aneddotico, come già è riscontrabile nel percorso del Roos: infatti le sue tele più ambiziose - per misure e numero di figure - risultano al momento quelle licenziate per Palazzo Taverna intorno al 1688: commissionate da quel monsignor Pietro Gabrielli, appassionato di alchimia, che venne addirittura imprigionato per eresia (A. Pampalone, Il ‘’peccato filosofico “ di Pietro Ga- brielli ... , Roma 2016). Ben noto il ciclo di tele al quale parteciparono Giacinto Brandi, Daniele Seiter e Bonaventura Lamberti: i lavori del nostro pittore con scene di caccia, nella foga espressiva come nel senso di un movimento concitato che rende particolarmente spettacolare e coinvolgente la raffigurazione - di stretta osservanza barocca - sono direttamente accostabili alle tele inedite che qui si illustrano, anche nella tecnica veloce e impastata che stende alla prima il pigmento sul supporto formando le figure tramite il colore spesso e denso, sostanziandole e rendendole quasi tangibili, come se stessero per prendere vita di fronte ai nostri occhi (D. Frasca- relli, L. Testa, La casa dell’eretico ... , Roma 2004). D’altronde sappiamo già dalle fonti come Philipp fosse famoso proprio per la celerità nell’operare - avendo sovente bisogno di denaro anche perché incallito giocatore d’azzardo - ed era proprio questa una delle qualità che più apprezzava il Gabrielli in un’artista, in un ottica costi - benefici, investimento e risultato a breve termine che parrebbe quasi capitalistica ante litteram, in contrasto poi con la visione fosca e miste- rica, fortemente spirituale e filosofica che aveva della vita il gentiluomo. Come accennato, le gran tele per il palazzo romano celano un sotto significato, legato probabilmente alla furia della natura e degli istinti che non frenati dalla ragione, o non compresi nella loro essenza, portano al caos e alla violenza, in un iter di progressiva elevazione cognitiva e intellettuale, in un vero e proprio percorso quasi iniziatico nel quale veniva calato il visitatore man mano che entrava nelle stanze della dimora capitolina, osservando poi la serie di opere disposte come un fregio lungo le pareti degli altri ambienti. Non mi stupirei se anche nel nostro caso, nella simmetria delle sue scene che si completano in un avvicendamento, in un ciclo di violenza nella quale il predatore e la preda, il vincitore e il perdente si scambiano continuamente i ruoli senza che vi sia un reale vincitore, come nel contrasto tra la terra e l’aria, tra ciò che è saldamente piantato al terreno e ciò che invece può elevarsi, si additi proprio una concatenazione di eventi che parrebbe ineluttabile, dalla quale possiamo elevaci proprio tramite la sua comprensione, astraendoci dal piano materiale per giungere a un piano spirituale più alto, nel quale è possibile interrompere questo ciclo di violenza e sopruso. E chissà che, con il procedere degli studi, e il riemergere di nuovi inventari, non si giunga a conoscere il committente di queste due pregevoli opere, che potrebbe proprio identificarsi col Gabrielli, o magari con uno dei colti frequentatori dei salotti intellettuali che si tenevano a Palazzo Taverna, dove si dissertava di simili teorie ispirate anche dalla scienza ‘eretica’ galileiana, in una nuova visione del mondo, e dell’uomo che vi fa parte, che darà i suoi frutti nei decenni a venire,durante il ‘Secolo dei Lumi’. Alessandro Agresti

 
Provincia di visione : RN (Rimini)